Commenti e sentenze

Affidamenti in house e obbligo di motivazione: il punto del Consiglio di Stato

Nota a Cons. Stato, sez. III, 12 marzo 2021 n. 2102

Nota a Cons. Stato, sez. III, 12 marzo 2021 n. 2102

1. Premessa: l’obbligo di motivazione dell’affidamento in house

L’art. 3 della L. 241/1990 consacra uno dei principi cardine del diritto amministrativo, ossia l’onere di motivazione dei provvedimenti.

Ogni provvedimento amministrativo deve rendere ragione dei suoi presupposti, e cioè dei fatti assunti alla base della sua stessa adozione. Attraverso la motivazione, l’amministrazione dà conto dei fattori legittimanti il potere esercitato con l’adozione di un determinato provvedimento.

Nel peculiare ambito dei contratti pubblici, il Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. n. 50/2016), prevede un onere di motivazione rinforzato in caso di affidamento in regime di in house providing. Nel caso, cioè, in cui un’amministrazione opti per l’affidamento di appalti o concessioni a soggetti formalmente distinti ma sottoposti ad un controllo talmente penetrante da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, in alternativa all’esternalizzazione mediante avvio di una procedura di evidenza pubblica.

In simili casi, l’art. 192, co. 2, impone di valutare la «congruità economica dell’offerta dei soggetti in house … dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche».

La scelta del regime in house deve basarsi sui consueti parametri di esercizio delle scelte discrezionali:

– valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti;

– individuazione del modello più efficiente ed economico;

– adeguata istruttoria e motivazione.

Il dibattito sorto “intorno” all’applicazione dell’art. 192 riguarda l’esistenza o meno di un rapporto regola/eccezione fra l’affidamento con gara e l’affidamento in house.

In ambito euro-unitario, può ormai considerarsi acquisito che l’in house providing non costituisce un’ipotesi eccezionale o derogatoria di affidamento dei servizi pubblici, bensì una modalità ordinaria pari-ordinata rispetto all’affidamento con gara.

Ciò di desume, innanzitutto, dalla Direttiva 2014/24/UE in materia di appalti pubblici, al V considerando, afferma espressamente che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva».

Con la (doverosa) precisazione contenuta all’art. 2, comma 1, della direttiva 2014/23/UE: le autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi, sempre che la modalità prescelta sia funzionale a «garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici».

In ambito nazionale, il dibattito è stato ed è vivace, e giova soffermarsi sull’interessante pronuncia del Consiglio di Stato in commento; non prima di aver dedicato un breve accenno ad una rilevante sentenza della Corte Costituzionale incentrata proprio sull’art. 192, co. 2, del Codice dei contratti pubblici.

2. La posizione della Corte Costituzionale

Nel dibattito ha preso autorevole posizione la Corte Costituzionale, chiamata (dal TAR Liguria) a pronunciarsi sulla ratio e sulla portata dispositiva dell’art. 192, co. 2, del Codice.

Il Giudice remittente, in estrema sintesi, ha contestato la tenuta costituzionale della norma nella parte in cui impone alle amministrazioni, in caso di affidamento in house, di dare conto «delle ragioni del mancato ricorso al mercato». Il fatto stesso che sia necessario precisare le “ragioni del mancato ricorso al mercato”, a dire del TAR Liguria, implicherebbe la collocazione dell’affidamento in house su un piano inferiore rispetto all’affidamento con gara, in preteso spregio alla normativa euro-unitaria e (dunque) in violazione del divieto di gold plating.

Con la sentenza n. 100 del 27 maggio 2020, la Corte ha fugato i sospetti di incostituzionalità della norma sollevati dal TAR.

La Corte ha anzitutto osservato che il divieto di gold plating va interpretato in una prospettiva di riduzione degli oneri non necessari, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive.

In tal quadro, la Corte ha valorizzato la “direttrice proconcorrenziale” della norma sospetta d’illegittimità costituzionale, che muove dalla “presunzione di preferibilità” delle procedure ad evidenza pubblica rispetto al modulo in house proprio al fine di garantire un vasto regime di concorrenzialità.

Tale essendo la ratio dell’art. 192 del Codice, non ricorre alcuna violazione del divieto di gold plating, e la norma va esente dai vizi ipotizzati dal TAR.

In conclusione (punto 9), la Corte ha mosso una critica (sottile, ma non troppo) alle amministrazioni italiane, riconoscendo che la linea restrittiva degli affidamenti in house di cui l’art. 192, co. 2, è espressione si giustificherebbe in “risposta” all’abuso degli affidamenti diretti che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni.

3. La sentenza in commento

Sul punto è recentemente intervenuta la terza sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 2102 in data 12 marzo 2021.

Nel caso di specie, un operatore privato ha contestato la scelta di un Ospedale ligure di affidare il servizio di gestione della sosta interna (e servizi accessori) a una società in orbita pubblica, proprio mediante il modello organizzativo dell’in house providing.

A fondamento del gravame, parte appellante ha posto, in estrema sintesi, due temi, di cui ha lamentato la mancata adeguata considerazione da parte del giudice di primo grado.

Da un lato, la carenza istruttoria e motivazionale del provvedimento dell’Amministrazione, ritenuto incentrato solo sui “benefici per la collettività” derivanti dall’affidamento in house e non anche sulla dimostrazione del cd. “fallimento del mercato”, ovvero dell’incapacità del mercato di offrire il servizio alle medesime condizioni -qualitative, economiche, di accessibilità- offerte dall’operatore in orbita pubblica.

Dall’altro lato, e in ogni caso, l’appellante ha contestato nel merito le ragioni spese dall’Amministrazione (e avallate dal giudice di primo grado) a sostegno della pretesa “preferibilità” della gestione in house rispetto all’affidamento con gara, incentrate sui presunti vantaggi che tale scelta avrebbe garantito alla collettività.

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Sul primo punto, il Consiglio di Stato ha ripreso la pronuncia di primo grado, secondo cui le due valutazioni (benefici per la collettività e fallimento del mercato) possono essere accorpate in un’unica, sintetica, motivazione che esponga in modo «ragionevole e plausibile [le] ragioni che, nel caso concreto», hanno condotto l’amministrazione «a scegliere il modello in house rispetto alla esternalizzazione».

Basterebbe semplicemente che l’amministrazione abbia ben presente la possibilità del ricorso al mercato e che dia una motivazione ragionevole e plausibile delle ragioni che, nel caso concreto, l’hanno indotta a scegliere il modello in house rispetto alla esternalizzazione.

In altri termini, il Collegio ha ritenuto che «la motivazione in ordine ad un aspetto possa risolversi anche nella motivazione dell’altro aspetto tutte le volte che i benefici per la collettività siano di per sé tali da giustificare il mancato ricorso al mercato».

Trattandosi di valutazione unitaria e complessa, finalizzata a sintetizzare i rispettivi vantaggi e svantaggi dei due modelli di affidamento, il sindacato del giudice amministrativo «non potrà che svolgersi secondo le coordinate tipiche del potere discrezionale, rifuggendo quindi da una analisi di tipo atomistico e parcellizzato della decisione amministrativa portata alla sua cognizione, ma orientandolo verso una valutazione di complessiva logicità e ragionevolezza del provvedimento impugnato».

In tal quadro, si è detto, ogni amministrazione affidante è tenuta a raccogliere in sede istruttoria dati ed elementi che le consentano di compiere, caso per caso, in maniera oggettiva e completa, la propria valutazione di “preferenza” tra i due modelli. Metodo che impone all’amministrazione «di prendere in considerazione sia la soluzione organizzativa e gestionale praticabile attraverso il soggetto in house (al fine, appunto, di enucleare i “benefici per la collettività” da essa attesi), sia la capacità del mercato di offrirne una equivalente, se non maggiormente apprezzabile, sotto i profili della “universalità e socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche».

Naturalmente, la discrezionalità dell’amministrazione nella preliminare fase valutativa trova un freno: è sempre fatta salva la verifica del giudice amministrativo sull’idoneità degli elementi raccolti in fase istruttoria a fornire un quadro attendibile ed esaustivo della realtà fattuale rilevante per la scelta.

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Sul secondo punto, inerente la ragionevolezza della scelta del modello in house nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha minuziosamente esaminato, scomponendola, la motivazione posta dall’Amministrazione a sostegno della propria scelta, soffermandosi sulle modalità con cui l’Amministrazione ha concretamente assolto ai suoi obblighi istruttori/motivazionali.

La delibera impugnata dall’operatore privato era fondata sul presupposto che gli standards di qualità, efficienza ed economicità normativamente previsti fossero raggiungibili “solo” attraverso l’operatore in house, definito «un soggetto pienamente qualificato, avente particolari competenze nell’ambito della gestione della viabilità, della sosta e, più in generale, delle politiche di mobilità pubblica».

Sul punto, il Consiglio di Stato ha condivisibilmente osservato che si tratta di considerazioni di carattere soggettivo concernenti lo specifico soggetto affidatario, insufficienti di per sé a «veicolare in termini necessitati la scelta circa la soluzione organizzativa ottimale in direzione dell’affidamento in house, e quindi a dimostrare che nel mercato non siano reperibili soggetti ugualmente qualificati da un punto di vista professionale/esperienziale».

In altri termini, l’individuazione di un operatore altamente qualificato in orbita pubblica non giustifica, per sé sola, l’affidamento in house, in «assenza di convincenti elementi per escludere che nel mercato siano presenti operatori muniti di analoghe “competenze tecniche specifiche”».

Analogamente, il Consiglio di Stato ha ritenuto insufficienti i numerosi riferimenti dell’Amministrazione a elementi qualitativi e vantaggiosi dell’offerta dell’operatore in house, non essendovi prova che si tratterebbe di elementi preferenziali propri ed esclusivi della proposta della società in house e non reperibili nell’ambito del mercato.

In conclusione sul punto, la pronuncia ribadisce con forza che «la scelta di sottrarre l’affidamento di un servizio al fisiologico confronto di mercato, optando per la soluzione auto-produttiva, deve trovare fondamento in dati oggettivi ed attentamente valutati, che giustifichino il sacrificio che quella scelta arreca alla libertà di concorrenza».

In altri termini, non è sufficiente «fare leva su dati evanescenti, di carattere eventuale o meramente organizzativo, insuscettibili di manifestare un corrispondente significativo beneficio per la collettività, derivante dal ricorso al modello dell’in house providing».

Gli oneri motivazionali prescritti dall’art. 192, co. 2, si risolvono infatti in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano.