Commenti e sentenze

Interdittiva antimafia “automatica” al vaglio della Corte Costituzionale

Nota a TAR Friuli - Trieste, sez. I, ord. 26 maggio 2020, n. 160

Nota a TAR Friuli – Trieste, sez. I, ord. 26 maggio 2020, n. 160

(Pubblicato su www.lexitalia.it)

       I.                 La finalità del sistema delle interdittive antimafia

Il sistema della documentazione antimafia previsto dagli art. 82 e seguenti del cd. Codice Antimafia (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159) mira a prevenire o inibire «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese» (art. 84, comma 3).

L’urgenza di far fronte a tali frequenti fenomeni ha condotto all’approntamento di un sistema di misure -quelle previste dall’art. 67 del Codice- volte ad evitare il “contatto” tra le imprese infiltrate (o a rischio di infiltrazione mafiosa) e la Pubblica Amministrazione.

La peculiarità delle misure previste dal Codice risiede nella loro finalità: neanche minimamente sanzionatoria bensì anticipatoria, al fine di prevenire il condizionamento mafioso negli operatori economici.

Affinché la prefetture possano giungere all’irrogazione delle misure antimafia non serve infatti alcuna certezza probatoria, come è invece naturale che sia in ambito penalistico. Tantomeno vi è (o dovrebbe esservi) intento punitivo.

In sostanza, gli ambiti applicativi del Codice Antimafia e del codice penale sono nettamente distinti. Per un verso, alla base di un’informativa antimafia possono anche esservi comportamenti non penalmente rilevanti; all’opposto, non ogni condotta penalmente rilevante è significativa ai fini dell’applicazione delle misure previste dal Codice.

Se così non fosse, le misure di prevenzione antimafia risulterebbero null’altro che pene aggiuntive a quelle “base” e a quelle accessorie già previste dal codice penale, con una inaccettabile duplicazione in contrasto con il principio del ne bis in idem.

        II.                 I cd. reati spia dell’infiltrazione mafiosa

Affinché un soggetto possa dirsi a rischio di infiltrazione, l’art. 91, comma 6, del Codice Antimafia richiede che debbano coesistere più elementi indiziari concordanti.

A norma di tale articolo, tra tali “elementi indiziari” rientrano anche eventuali condanne passate «per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali» (cd. reati spia).

Ma ciò, si badi, solo se tali reati siano valutati «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa … agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

Una singola condanna, pertanto, non può certo assurgere a fondamento unico del provvedimento interdittivo. Il che contrasterebbe con svariati principi alla base del nostro ordinamento, non ultimo quello di proporzionalità.

In altri termini, «il Prefetto può e non deve già desumere elementi di infiltrazione mafiosa dalla contestazione dei reati previsti dall’art. 84» (Cons. Stato, Sez. III, 2 marzo 2017 n. 982).

La prefettura deve pertanto dar conto, a fondamento del proprio provvedimento interdittivo, di uno strutturato quadro indiziario che giustifichi il timore di un’insinuazione mafiosa nella società colpita, dandone dettagliatamente conto nella motivazione del provvedimento.

Nell’evidenziare la «consistenza del quadro indiziario rilevante dell’infiltrazione mafiosa», la prefettura deve dunque «dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza» dai quali, «valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona», sia possibile pervenire in via presuntiva alla conclusione che un rischio di infiltrazione mafiosa effettivamente sussista (TAR Lombardia, Sez. I, 18 aprile 2019 n. 871).

     III.                 Le modifiche contenute nel cd. Decreto Sicurezza: i nuovi reati spia

Come detto, l’art. 91, comma 6 definisce genericamente i reati spia come tutti quelli «strumentali all’attività delle organizzazioni criminali», allorché sussistano elementi “complementari” che facciano supporre il rischio di un’infiltrazione mafiosa.

L’art. 67, comma 8, nella versione precedente alla modifica del 2018, tipizzava alcuni reati più tipicamente (ma non automaticamente) “mafiosi”: quelli previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p, ossia quelli a struttura associativa.

L’art. 24 del DL 4 ottobre 2018, n. 113, convertito in Legge 1° dicembre 2018 (cd. Decreto Sicurezza), ha modificato il testo dell’art. 67, comma 8, del Codice; aggiungendo all’elencazione dei reati ostativi all’ottenimento della comunicazione antimafia anche la truffa ai danni dello stato (art. 640, comma 2, n.1, c.p.) e la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.).

Sennonché, se è vero che i reati di cui alla precedente elencazione (art. 51, comma 3-bis, c.p.p.) presentano un’intrinseca connessione con attività di stampo mafioso, di tal che molto spesso il quadro indiziario di cui il prefetto deve dare conto si riduce alla condanna stessa e a pochi altri elementi concordanti, lo stesso non può certo dirsi dei reati ex art. 640 e 640-bis c.p..

Trattasi infatti di reati comuni, che non presentano alcun tipo di nesso astratto con fenomeni di criminalità organizzata; a nulla potendo rilevare il solo dato statistico. In altri termini, il fatto che numerose organizzazioni mafiose si siano dimostrate inclini alla commissione delle predette forme di truffa aggravata non può certo far concludere che, in presenza di tali reati, vi sia ex se un rischio di infiltrazione mafiosa.

Pertanto, l’elencazione dell’art. 67, comma 8, va letta come una semplice estensione della nozione di reato spia desumibile dall’art. 19. Sicché, quand’anche il prefetto ravvisi la presenza di un precedente ex art. 67, comma 8, non può ritenersi esentato dall’onere motivazionale in ordine alle circostanze “gravi, precise e concordanti” che -in aggiunta al precedente penale- l’hanno condotto a ritenere il soggetto colpito a rischio di infiltrazione.

   IV.                 Le applicazioni pratiche del nuovo art. 67, comma 8: la “interdittiva automatica” e le criticità sottese

Sennonché, dalle prime applicazioni pratiche del nuovo art. 67, emerge un’interpretazione che suscita dubbi di illegittimità costituzionale.

Sembra emergere una nuova tipologia di interdittiva antimafia, l’interdittiva automatica. La genesi di questa nuova figura affonda le proprie radice in un’analisi letterale dell’art. 67, comma 8, che lascia tuttavia perplessi: dal momento che la norma stabilisce in modo netto che le misure antimafia «si applicano» alle persone condannate per uno dei reati elencati, senza temperamenti e senza richiami all’art. 91, non vi sarebbe necessità di alcuna ulteriore indagine o valutazione. Si tratterebbe, come detto, di un vero e proprio automatismo, apertamente contrastante (con svariati principi costituzionali, ma ancor prima) con la logica del sistema antimafia (supra, par. I).

Sull’inammissibilità di tali automatismi, peraltro, il Giudice Amministrativo ha già avuto modo di pronunciarsi in più occasioni.

Il Consiglio di Stato ha statuito che «l’annullamento di qualsivoglia discrezionalità … in questa materia» farebbe dell’interdittiva antimafia «un provvedimento vincolato, fondato … su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa» (Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2019 n. 6105).

La medesima pronuncia chiarisce poi che ogni prefettura «è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo», ma siano idonei a fondare «la prognosi di permeabilità mafiosa lungi da qualsiasi automatismo presuntivo» (Cons. Stato, sent. 6105/2019, cit.; TAR Campania, Sez. I, 11 ottobre 2019 n. 4832).

Diversamente opinando, sorgerebbero serie criticità anche in ordine ai profili di applicabilità intertemporale della norma.

Ravvisare nell’art. 67, comma 8, un meccanismo rigidamente automatico, condurrebbe (e talvolta, si vedrà, già conduce) al paradosso per cui la sussistenza di un precedente penale ex art. 640 o 640-bis c.p., anche molto risalente nel tempo, risulta irrilevante fino al 2018, ma assume rilevanza decisiva  a partire dall’entrata in vigore del Decreto Sicurezza, nel senso di condurre a una sicura (e automatica) applicazione delle gravose misure antimafia.

Il che, se già a prima vista stride con basilari principi costituzionali, conduce altresì a un vero e proprio rovesciamento dei capisaldi del sistema antimafia, che nasce come preventivo e non certo come punitivo.

Per principio pacifico, ogni valutazione degli indici di infiltrazione mafiosa deve infatti basarsi su un «giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività di impresa» (Cons. Stato, Sez. III, 16 maggio 2017 n. 2327; Cons. Stato, Sez. III, 5 maggio 2017 n. 2085; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 7 gennaio 2019 n. 73).

Sennonché, come si vedrà appresso, tali principi sono stati sistematicamente disattesi dall’entrata in vigore del nuovo art. 67, comma 8, in poi; come se la novella legislativa avesse normativamente previsto gli “automatismi presuntivi” già ritenuti illegittimi dal Giudice Amministrativo.

      V.                 Il giudizio avanti al TAR Friuli – Trieste e il rinvio alla Corte Costituzionale

L’ordinanza collegiale in commento (TAR Friuli – Trieste, Sez. I, ord. 26 maggio 2020, n. 160) è stata resa proprio in un giudizio avente ad oggetto l’applicazione dell’art. 67, comma 8, nella versione modificata dal Decreto Sicurezza.

In prima battuta, il TAR Friuli, con ordinanza cautelare 12 settembre 2019, n. 74, aveva respinto l’istanza di sospensione di un’interdittiva antimafia unicamente fondata sull’esistenza di un precedente per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.); ritenendo tale «circostanza (pacificamente e) automaticamente ostativa al rilascio della liberatoria», trattandosi di uno dei reati richiamati dall’art. 67, comma 8.

Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha accolto l’appello cautelare del soggetto colpito dalla misura (Cons. Stato, Sez. III, ord. 18 ottobre 2019, n. 5291), riconoscendo come sia la «portata retroattiva della nuova previsione di cui all’art. 67, comma 8, ultimo periodo», sia la «intrinseca ragionevolezza della disposizione, anche in relazione ai profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale» fossero meritevoli di maggiore approfondimento in sede di merito.

Non solo. Il Consiglio di Stato si è spinto oltre, precisando che, se in astratto possono essere ritenuti legittimi «effetti interdittivi automatici collegati al verificarsi di determinate circostanze», ciò può avvenire solo laddove tali circostanze siano «considerate pienamente indicative del rischio di contaminazione mafiosa del tessuto sociale ed economico». Fermo restando, «nella definizione di tali ipotesi», il «necessario controllo di ragionevolezza e di proporzionalità delle disposizioni legislative» desumibile da principi costituzionali ed euro-unitari.

Rimettendo la questione al TAR per la definizione del merito, i giudici di Palazzo Spada hanno concluso riconoscendo che «il previsto effetto interdittivo automatico della condanna per il reato di cui all’art. 640-bis, … potrebbe risultare, allo stato, irragionevolmente sproporzionato rispetto alla finalità preventiva perseguita dal legislatore, così alimentando anche l’ulteriore dubbio sulla legittimità della sua applicabilità retroattiva, potendosi ipotizzare che la sua finalità sia sostanzialmente punitiva e non preventiva, con la conseguente applicazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di irretroattività delle norme penali».

Tali indicazioni sono state integralmente recepite dal TAR friulano; il quale, melius re perpensa, ha ritenuto di superare il suo stesso precedente orientamento.

Con l’ordinanza in commento, il TAR ha infatti ritenuto sussistenti i presupposti per sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del Codice Antimafia, come modificato dal Decreto Sicurezza, «per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e degli artt. 25, 27, 38 e 41 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, laddove, all’ultimo periodo, prevede che gli effetti automaticamente interdittivi all’ottenimento, tra gli altri, di “altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati” (art. 67, comma 1, lett, f) conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all’art. 640-bis c.p.».

In prima battuta, il TAR ha confermato la sua precedente interpretazione del dato letterale della norma, chiarendo che le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all’art. 67 sarebbero «automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati». Pertanto, «secondo il tenore letterale della norma, il ricorso» sottoposto al vaglio del TAR «dovrebbe essere respinto poiché il ricorrente ha riportato una condanna per il reato di cui all’art. 640-bis c.p.».

Sennonché, i giudici friulani hanno sollevato la questione costituzionale nel senso anzidetto ritenendo che l’art. 67, comma 8, «fa derivare un effetto interdittivo automatico a carico di soggetti che sono stati condannati per un reato (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) che non è riconducibile tout court alla criminalità organizzata di tipo mafioso e che può, al più, costituire mera circostanza da cui desumere, nello specifico caso concreto e attraverso una compiuta e diffusa valutazione di carattere necessariamente discrezionale, elementi sintomatici di contiguità al fenomeno mafioso della specifica condotta posta in essere».

Nella pronuncia del TAR vengono tenuti in debita considerazione anche i profili di applicazione intertemporale a cui si è accennato.

L’ordinanza, dopo aver evidenziato l’irragionevolezza dell’assimilazione tra il reato ex art. 640-bis c.p. e «quelli, decisamente più gravi, indicati all’art. 51, c. 3-bis, c.p.p.», specifica che tale irragionevolezza produce effetti ancor più distorsivi allorché gli «effetti pregiudizievoli vengono fatti derivare anche da sentenze pronunciate antecedentemente all’entrata in vigore» del Decreto Sicurezza del 2018, «che ha inserito l’art. 640-bis c.p.p. all’interno dell’art. 67, c. 8, d.lgs. 159/2011».

Allo stato, dunque, non resta che attendere la pronuncia della Consulta.

Avv. Federico Vaccarino