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Decreto Sbloccacantieri: novità, dubbi, e un sicuro effetto di blocco dei cantieri

Il preannunciato decreto legge “sblocca-cantieri” è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 aprile 2019 (d.l. 32/2019), a tre anni esatti dalla pubblicazione del Codice dei Contratti pubblici, ed è immediatamente entrato in vigore.

Occorre però attendere la legge di conversione, che dovrà intervenire entro 60 giorni, per conoscere il testo definitivo delle modifiche. Anche perché la recente prassi legislativa ha trasformato i decreti legge in una sorta di “disegno di legge a corsia preferenziale di approvazione”: con leggi di conversione che, anche attraverso un esteso ricorso al voto di fiducia, approvano testi totalmente diversi e molto più corposi rispetto al decreto da convertire.

Anche per questo, le nuove disposizioni generano problemi applicativi che meritano di essere approfonditi, sia pure sinteticamente; con rischi altresì di gravi riflessi concreti sul settore, oltre che con profili di possibile ampia incostituzionalità (pur nell’attuale ritrosia dei giudici di rimettere alla Corte Costituzionale questioni relative alla procedura di decretazione d’urgenza).

BLOCCA-cantieri. A dispetto del nome, il decreto genererà la paralisi dell’intero settore dei contratti pubblici, per svariati mesi: tutte le gare che al 18 aprile 2019 hanno atti pronti ma non ancora pubblicati (procedure aperte o ristrette) o inviati (procedure negoziate per lavori fino a un milione di euro) non possono essere avviate, perché la disciplina è cambiata.

In compenso, anche riscrivere i relativi atti per adeguarli alla nuova disciplina, ciò che comunque richiede tempo, è impossibile: tra meno di 60 giorni, con l’approvazione della legge di conversione, interverranno ancora cambiamenti, al momento neppure prevedibili; e in teoria entro 180 giorni dovrebbe intervenire un nuovo regolamento generale.

Le statistiche di fine anno mostreranno che in questi mesi si sarà verificato il crollo del numero degli appalti pubblici (come già fu nel maggio-giugno 2016), e i conseguenti effetti negativi sul PIL (butto lì: -0,3%, solo per questo?).

Altro che “sblocca-cantieri”, qui si potrebbe parafrasare una battuta da film: “fermi tutti, è una riformina”.

La gatta frettolosa fa i gattini ciechi. La legge Merloni (109/1994) ha impiegato anni (3) prima di trovare piena applicazione, e il regolamento del 1999 entrò in vigore circa 5 mesi dopo la sua adozione.

Il Codice del 2006 ha previsto una mora di 2 mesi, prima dell’entrata in vigore, e addirittura 6 mesi per il regolamento generale poi adottato nel 2010.

Il Codice del 2016 è entrato immediatamente in vigore, e tutti (operatori, imprese, sindacati, ANAC e da un certo momento in poi anche il Governo che lo aveva approvato) hanno constatato gli effetti deleteri di intervenire radicalmente sulla contrattualistica pubblica senza concedere un periodo di “digestione”.

Ora si giunge ad una riforma sistematica (32 articoli modificati da 86 diverse disposizioni che incidono, aggiungendoli, modificandoli o eliminandoli, su 83 commi) con decreto legge: non solo di immediata entrata in vigore, ma destinato a restare provvisorio per 60 giorni.

Altro che gattini, i ciechi ora scrivono i decreti legge.

Blocca-ANAC. Il vero spirito ispiratore della “riforma 2019” è la rottamazione di ANAC rispetto all’intero ambito dei contratti pubblici.

ANAC non ha più potere normativo “di fatto” né regolatorio, non propone più al Ministero i testi dei decreti, non nomina più le Commissioni di gara; a proposito, divertente che invece di prendere atto dell’ovvio fallimento del sistema degli albi, si sia aggiunto un comma per l’ipotesi di “disponibilità insufficiente di esperti iscritti” negli albi ANAC.

Ora, che il Codice avesse attribuito ad ANAC poteri esorbitanti, e in parte estranei al nostro sistema costituzionale, è certo (e affermato anche da alcuni interventi del Consiglio di Stato, peraltro geloso delle proprie prerogative).

E che ANAC fosse strutturalmente inadeguata a farvi fronte, è stato subito evidenziato da molti, compreso chi scrive.

Probabilmente, era anche culturalmente e strategicamente errato affiancare gli appalti e la (anti)corruzione.

Però.

Però, stravolgere il sistema, senza uno studio approfondito dei vari profili coinvolti e dei singoli poteri di ANAC così eliminati, con un improvviso (e improvvisato) decreto legge, rischia di generare danni anche maggiori.

Semplificazione? Naaaah. Il Codice del 2016 fu presentato con inni alla semplificazione, perché riduceva gli articoli ed eliminava il Regolamento; tutti sappiamo com’è andata in concreto.

I promotori della riforma 2019 inneggiano nuovamente alla semplificazione.

Basterebbe osservare che si tratta di 86 modifiche su 83 commi (molti aggiunti, in un diluvio di commi bis, ter e via sino a octies) in circa un settimo degli articoli totali; che si re-introduce il regolamento generale (in teoria tra 180 giorni, ma sappiamo già non basteranno); che tutti attenderemo la legge di conversione; che viene aggiunga una ulteriore disciplina transitoria sino all’entrata in vigore del regolamento.

Insomma, risulta tutto ancora (e molto) più complicato.

 

Procedura negoziata, più o meno? Più. I primissimi commenti hanno letto con allarme la modifica riguardante gli appalti di lavori di minor impatto: i contratti fino a 200.000,00 € si possono affidare mediante procedura negoziata con invito a soli 3 operatori, mentre prima la soglia era 150.000,00 € e le imprese da invitare erano 10.

In effetti, la facoltà suscita perplessità in termini di trasparenza e anche di economicità, posto che per lavori di un certo importo anche i privati chiedono più di 3 preventivi (e già risuona la melodia “eravamo quattro amici al bar…”).

Tuttavia in concreto la modifica potrebbe risultare marginale, perché: 1) si tratta pur sempre di facoltà, per cui gli uffici potranno consultare più di tre imprese; 2) vige comunque il principio di rotazione tra le imprese da invitare; 3) l’ambito oggettivo pare modesto, dato che i lavori pubblici sotto i 200.000,00 € sono numericamente contenuti (per lo più, manutenzioni).

Procedura negoziata, più o meno? Meno. In compenso, la riforma ha totalmente eliminato la procedura negoziata con 15 inviti, che prima era consentita per gli appalti di lavori tra 150.000,00 € e 1 milione di euro; per fornire una stima dell’impatto sul settore, si tratta di circa il 70% degli appalti di lavori in Italia.

Quindi, ciò che finora era aggiudicato senza bandi, con procedure più snelle e un numero limitato (ma comunque adeguato, rispetto al valore) di operatori, diventa ora da affidare con gare pubbliche e un enorme numero di partecipanti.

Nel complesso, quindi, molta più trasparenza, ma anche procedure più complicate nel loro svolgimento e nella loro gestione (anche se, nel tentativo di semplificare, si prevede le possibilità di non verificare i requisiti di ammissione se non al momento dell’aggiudicazione: vedi dopo).

Prezzo più basso sempre, ma solo in teoria. In base al nuovo comma 9-bis dell’articolo 36, per tutti gli appalti sotto soglia comunitaria di lavori, servizi e forniture, il criterio principale di aggiudicazione diviene il “prezzo più basso” (o meglio, almeno per i lavori, la lotteria, come si vedrà subito).

Restano da affidare con comparazione qualità/prezzo i servizi ad alta intensità di manodopera (pulizie, ristorazione, facility management, ecc.), i servizi intellettuali, i servizi e le forniture ad alto contenuto tecnologico (art. 95 co. 4), nonché quelli per i quali la stazione appaltante compia una scelta in tal senso con adeguata motivazione (il comma 9bis dell’art. 36 utilizza l’espressione “offerta economicamente più vantaggiosa”, che ormai vuol dire altro, ma non si può pretendere conoscenza da chi scrive le norme).

La norma riguarda quindi soprattutto i lavori, oltre alle forniture “tipiche”. E vero è che i lavori sono progettati in dettaglio, sicché le offerte non sono qualitativamente diverse; ma è anche vero che le offerte ben possono distinguersi quanto ai tempi di esecuzione, modalità di gestione del cantiere, accorgimenti ambientali, certificazioni sul lavoro, esperienza specifica del direttore cantiere, ecc. (tutti indici di affidabilità dell’offerta).

Insomma, la qualità dei metodi produttivi risulta accantonata, sull’altare non del prezzo più basso, bensì della lotteria! Infatti…

Lotteria di capodanno, e per tutto l’anno. Negli appalti “al prezzo più basso” diviene ora obbligatorio, e non più facoltativo, escludere le offerte “anomale”, cioè le offerte che superano una certa percentuale di sconto.

Su questo argomento, il Decreto offre il peggio di quanto sinora sia accaduto nella materia, e non era facile: non solo viene introdotta una formula totalmente casuale (si calcola la media dei ribassi pervenuti; la si corregge aumentandola di non molto; dopo di che si abbassa questa correzione del risultato -in percentuale- dato dalla moltiplicazione delle prime due cifre dopo la virgola della media originaria. E chi supera questo numero cabalistico viene escluso. Davvero); ma addirittura, si stabilisce che il Ministero delle Infrastrutture potrà inventarsi altre formule «al fine di non rendere nel tempo predeterminabili dagli offerenti i parametri di riferimento per il calcolo della soglia di anomalia».

In sostanza, si deve concorrere alle gare d’appalto senza poter in nessun modo prevedere con quale sconto si avrà possibilità di ottenere il contratto.

Scordatevi che vinca “il prezzo più basso”. Scordatevi che una impresa concorra presentando la miglior offerta possibile. Scordatevi anche di formulare un’offerta ponderata, per tentare di vincere l’appalto. No, bisogna procedere con offerte del tutto “a casaccio”.

Scommettere gran parte dei propri averi sull’esito delle partite di calcio è, al confronto, una oculata strategia imprenditoriale.

Ma attenzione: siccome tutti i trucchi di prestigio hanno un senso, si apre una porta agli accordi illeciti (vedi sotto, sul subappalto).

Qualità/prezzo, ma un po’ più di prezzo. Al fine di privilegiare la qualità nelle commesse pubbliche, il Codice imponeva di non superare 30 punti (su 100 totali) per la voce del prezzo, negli appalti da aggiudicare attraverso una comparazione tra qualità e profilo economico.

Il decreto abroga il limite, senza sostituirlo con altra soglia. A dispetto delle esigenze di qualità, e del motto popolare (e talvolta di buon senso) “chi più spende, meno spende”.

“Hai un contenzioso tributario? Per me è NO!” L’art. 80, relativo alle cause di esclusione dalle gare, avrebbe avuto necessità di modifiche e coordinamenti, viste le moltissime questioni applicative e il notevole contenzioso.

Invece, la principale modifica apportata dal decreto aumenterà i ricorsi: si prevede l’esclusione anche per mancati pagamenti di tasse, imposte e contributi “non accertati definitivamente”.  Cioè, se l’Agenzia delle Entrate esige il pagamento di importi che il contribuente ritiene non dovuti, tanto da impugnare i provvedimenti dinanzi alle Commissioni Tributarie, questo basterà per essere esclusi dalle gare d’appalto.

In un sistema fiscale “semplice” come quello italiano, nel quale il divario tra contestazioni fiscali e pronunce favorevoli all’erario è enorme, serviva proprio un motivo di esclusione come questo. Il tutto, ovviamente, invocando una pretesa “richiesta dalla UE” che non è assolutamente in questi termini (poteva mancare il “ce lo chiede l’Europa”?).

L’ANCE ha già mosso contestazioni (Sole 24 ore del 25 aprile), evidenziando anche la probabile incostituzionalità; probabile una modifica nella legge di conversione.

“Non voglio sapere nulla di te”. In gare con 100 e oltre partecipanti, la verifica dei requisiti rappresenta un adempimento complesso e fonte di complicazioni.

La risposta del decreto è apparentemente semplice; almeno per le gare sotto soglia comunitaria (perché la norma è contenuta nell’articolo 36, anche se l’innovato comma 5 non pone limitazioni), l’ente appaltante può decidere di non verificare il possesso dei requisiti dei concorrenti, sino all’aggiudicazione, e di riservarla solo all’aggiudicatario e alle imprese che decida di verificare a campione (ma senza alcun obbligo: verifica a campione destinata a restare inattuata).

Insomma, io e qualsiasi lettore di questo articolo potremmo fingerci imprese e presentare offerta in qualsiasi appalto di costruzioni, senza presentare cauzione o altro, purché l’ente preannunci che non verificherà i requisiti. E in questo modo, tra l’altro, alterare la media e quindi influire sull’aggiudicazione.

Ai tempi dell’università, c’era chi iscriveva agli esami l’intera formazione della nazionale di calcio, solo per il gusto di sentirla elencare all’appello; se non fosse per il remoto rischio di denuncia per turbativa d’asta, la tentazione ci sarebbe…

Subappalto, terna quaterna e cinquina. Viene eliminato l’inutile obbligo di dichiarare in gara, al momento dell’offerta, una terna di possibili subappaltatori.

Obbligo in effetti assurdo e inutile, dato che chi vinceva l’appalto non aveva poi necessità di rivolgersi a uno dei tre “nominati”; in compenso, se uno dei tre “nominati” presentava una qualsiasi causa di esclusione (anche un mancato pagamento di contributi, per dire), l’impresa che l’aveva incautamente e inutilmente nominato veniva escluso dalla gara. Bene, quindi, la soppressione dell’obbligo; resta il dubbio: chi diavolo l’aveva pensata, questa?

“Mi subappalti? Ma quanto mi subappalti?” Il limite di subappalto, dal 30% del Codice, viene elevato al 50%, con formula peraltro equivoca nella forma e nella sostanza.

Nella forma. Secondo il nuovo articolo 105 co. 2, “il subappalto è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara”; peccato che il subappalto sia un istituto previsto dalla legge, e non può certo essere “indicato” dagli enti aggiudicatori o da altri. Al più, è la percentuale di subappalto che può essere indicata; anche se abbiamo già appurato che è troppo pretendere che chi scrive le norme sia consapevole almeno del significato delle parole che usa.

Nella sostanza. Rimettere alle stazioni appaltanti il compito di definire la percentuale di subappalto, sino al massimo del 50%, lascia totale arbitrio e sembra perfino introdurre la facoltà di vietarlo del tutto, già censurata in sede comunitaria.

In ogni caso, la modifica potrebbe non essere sufficiente neppure per evitare la censura comunitaria, per la quale procedura di infrazione è già in corso.

Ad aggiungere problemi a problemi, manca una disposizione transitoria, con il risultato che attualmente convivono varie discipline, a seconda del momento di indizione della gara per l’affidamento del contratto a cui il subappalto si riferisce: per i contratti affidati ad esito di gara indetta prima del 18 aprile 2016, il limite è 30% per la prestazione prevalente e 100% per le altre prestazioni; per i contratti con gara indetta tra aprile 2016 e aprile 2019, il limite è del 30% sul totale del contratto, senza deroghe per le varie prestazioni; per i contratti con gara dal 19 aprile 2019 alla conversione del decreto, il limite è indicato dalla PA sino ad un massimo del 50%; dopo la conversione, chissà.

Il tutto, considerando che il subappalto non autorizzato è un reato. Semplificazione, si diceva?

Il trucco c’è, e si vede: il subappaltatore concorrente. Il decreto ha anche cancellato il divieto di affidare il subappalto a impresa che ha partecipato alla gara d’appalto.

Ecco il punto debole della dichiarata trasparenza.

Il quadro che si prospetta è questo, per tutti i contratti di lavori pubblici sopra i 200.000,00 €: gare aperte a tutti, con oltre 100 imprese partecipanti in media; obbligatorio aggiudicare “al prezzo più basso” ma con esclusione automatica di tutte le offerte più convenienti, e quindi con il metodo della “lotteria”; il vincitore “per caso” potrà poi affidare in subappalto il 50% ad altra impresa che ha partecipato allo stesso appalto.

Prima conseguenza. Qualsiasi impresa avrà interesse a partecipare al massimo numero di gare, ovunque siano, con offerte “a casaccio” (tanto, non conta proporre il miglior prezzo), e in caso di vittoria cedere poi la gran parte della esecuzione a una delle poche imprese davvero interessate a quel lavoro.

Seconda conseguenza. Le imprese davvero interessate a quel lavoro avranno anche indicato, in offerta, a quale prezzo sono disposte a eseguirlo; l’impresa che ha vinto la lotteria potrà scegliere la pretendente con prezzi più bassi, tenendo per sé il margine.

Terza conseguenza. Se l’impresa che ha vinto la lotteria non intende eseguire quasi nulla dell’appalto, tenendosi solo la differenza, potrà limitarsi a fornire attrezzature e materiali di costruzione, per circa il 50% del valore totale; il subappaltatore eseguirà prestazioni per il restante 50%, e tutti saranno felici.

Ancora col subappalto: meno pagamenti diretti. Il decreto abroga l’automatico pagamento diretto alle micro e piccole imprese; resta invece il pagamento diretto da stazione appaltante a subappaltatore, quali che siano le sue dimensioni, quando quest’ultimo ne faccia richiesta, anche se l’appaltatore non è moroso nei pagamenti.

Fondi spese per tutti! Con una modifica terminologica apparentemente banale, il decreto elimina dall’art. 35 comma 18 i riferimenti ai “lavori”, sostituendoli con “la prestazione”. L’effetto è potenzialmente enorme: si tratta del comma (e cosa ci faccia nell’articolo 35, sulle soglie comunitarie, resta un mistero irrisolto) che prevede l’anticipazione del 20% del valore del contratto prima dell’inizio dell’appalto.

Per i lavori, l’acconto appare perfettamente logico: l’impresa sostiene costi e investimenti per cantiere e approvvigionamento materiali, destinati ad essere remunerati dopo molto tempo.

L’esigenza è meno ravvisabile per servizi e forniture, almeno in genere, e infatti la norma li escludeva.

Ora, con la modifica che sembra innocua («al comma 18, le parole “dei lavori”, ovunque ricorrano, sono sostituite dalle seguenti: “della prestazione”») ma non lo è, si apre la strada ad acconti e fondi spese per tutti i contratti pubblici.

Processo: contrordine, compagni! Il Codice aveva tentato di strangolare “in culla” i ricorsi in materia di contratti pubblici, imponendo di contestare le ammissioni dei concorrenti sin dalla fase preliminare; cioè in un momento in cui non si ha idea né di chi vincerà, né del perché si dovrebbe contestare qualcosa.

Dopo remissioni in Corte costituzionale e comunitaria, oltre a contestazioni di ogni tipo, dietrofront: abrogate le norme processuali e quelle sulla pubblicazione degli ammessi e degli esclusi, si torna al “vecchio” rito.

Di tutta la riforma, è una delle modifiche più apprezzabili, in termini di sistema e di principi. Del resto, a dispetto delle credenze comuni (alimentate da una campagna stampa non particolarmente spontanea), i ricorsi al TAR interessano meno dell’1% delle gare in Italia, e si decidono in pochi mesi; non è certo il contenzioso amministrativo il problema dei contratti pubblici, come appare anche constatando invece gli effetti sul settore di un certo modo di legiferare…

La Costituzione più bella del mondo…da violare. Infine, una considerazione di sistema.

Il decreto contiene 30 articoli, il primo dei quali “fiume”, su svariati e diversissimi argomenti.

Secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, un decreto con questa composizione viola le finalità della decretazione d’urgenza, e quindi la Costituzione.

In questo caso, poi, si tratta di un decreto che tra approvazione in Consiglio dei Ministri e pubblicazione (previa seconda approvazione) ha visto un intervallo di un mese, in contrasto con le dichiarate esigenze di urgenza; il che potrebbe da solo costituire elemento di incostituzionalità.

Sempre se qualche Giudice, adito sull’applicazione delle norme, ritenga di rimettere la questione alla Corte.