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L’azione di condanna del processo amministrativo

Relazione a margine del Convegno SOLOM dell'11 dicembre 2018

AZIONE DI CONDANNA NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO CONVEGNO SOLOM 11 DICEMBRE 2018

(Relatori: Prof. Aldo Travi – Dott. Antonio De Vita)

  1. L’azione di condanna in generale – 2. La domanda risarcitoria – 3. Le utilità (scarsamente sfruttate) dell’azione di adempimento – 4. Esecuzione della sentenza di condanna: profili critici – 5. L’accesso civico generalizzato: aspetti sostanziali e processuali
  2. L’azione di condanna in generale

Sotto la nozione di “azione di condanna” sono ricondotte domande tra loro eterogenee, accomunate dal carattere non demolitorio: alla base dell’azione vi è infatti l’affermazione della spettanza di un risultato. L’azione di condanna può avere ad oggetto, ex artt. 30 e 34, co. 1, lett. c, D.Lgs. 104/2010 (di seguito, c.p.a.):

–   il pagamento di una somma di denaro;

–   l’emissione di un provvedimento (c.d. azione di adempimento);

–   la restituzione di beni da parte dell’Amministrazione;

–   qualsiasi altra misura idonea a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio.

Benché l’azione di condanna sia concepita per essere esperita nei confronti della Pubblica Amministrazione, nulla preclude che sia quest’ultima a proporla nei confronti di un privato. Basti osservare l’ipotesi in cui l’Amministrazione vanti una pretesa in virtù di un accordo concluso con un privato.

La fattispecie esemplificata è stata oggetto di attenzione da parte della Corte Costituzionale, sotto il profilo della giurisdizione. Nel dettaglio, il TAR Puglia aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 133 c.p.a., nella parte in cui affida alla cognizione del giudice amministrativo le controversie concernenti atti e provvedimenti in materia urbanistica. Tale disposizione, ad avviso del giudice rimettente, contrasterebbe con gli artt. 103 e 113 Cost., dai quale scaturirebbe un sistema di tutela attivabile esclusivamente ad iniziativa del privato leso.

La Corte Costituzionale, con particolare riguardo alle convenzioni urbanistiche, ha ritenuto la questione manifestamente infondata, affermando che, poiché il Codice ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie che trovano titolo negli accordi che sostituiscono o integrano i provvedimenti amministrativi, risulta irrilevante la circostanza per cui l’iniziativa giurisdizionale sia promossa dal privato o dalla Pubblica Amministrazione; in entrambe le ipotesi sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo.

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  1. La domanda risarcitoria

Nonostante l’ampio perimetro dell’azione di condanna, da un esame delle sentenze emerge che la quasi totalità delle domande è finalizzata al risarcimento del dannoderivante dalla lesione di un interesse legittimo.

Nella valutazione della domanda risarcitoria, i giudici amministrativi richiedono con rigore la prova del danno, anche nel quantum, ritenendo insufficienti le dichiarazioni genericamente rese dalla parte. L’esercizio del potere equitativo del giudice può infatti ammettersi solamente nel caso in cui la determinazione della misura del danno risulti oggettivamente complessa, non potendo in alcun modo sostituire una carenza probatoria della parte.

Nella determinazione del quantum dell’obbligazione risarcitoria acquisisce indubbia rilevanza il disposto dell’art. 30 co. 3 c.p.a..

A mente della citata norma, «nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti», escludendo il risarcimento dei danni «che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».

I giudici amministrativi hanno ricondotto alla nozione di “strumento di tutela”, oltre ai rimedi stragiudiziali, anche l’azione processuale, dando così rilevanza alla diligenza processuale della parte che ha avanzato la domanda risarcitoria. Detta interpretazione genera tuttavia delle criticità.

Da un lato, pare astrattamente configurabile un profilo di illegittimità costituzionale (art. 24 Cost.), nel momento in cui la parte, per non veder pregiudicata la propria pretesa risarcitoria, è sottoposta ad un “obbligo di difesa”.

Dall’altro lato, l’interpretazione fornita dai giudici amministrativi diverge dall’orientamento dei giudici ordinari, i quali hanno escluso la rilevanza della diligenza processuale della parte; in particolare è stato osservato che «l’obbligo di cooperazione del creditore volto ad evitare l’aggravarsi del danno, nell’ambito dell’ordinaria diligenza (…) possa riguardare solo quelle attività che non siano particolarmente gravose o rischiose per il creditore, secondo una valutazione riservata al giudice di merito» (Cass. Civ. Sez. Lav., 10 aprile 2018, n. 8779).

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Caratterizzanti la domanda risarcitoria e oggetto di attenzione da parte dei giudici amministrativi sono altresì i profili inerenti l’elemento soggettivo dell’illecito e il termine per l’azionabilità della domanda.

Quanto all’elemento soggettivo, si distingue:

–     Responsabilità derivante da attività negoziale, per la quale la Corte di Giustizia Europea ha configurato una responsabilità oggettiva della Pubblica Amministrazione, modellata sulla responsabilità contrattuale; preme rilevare che, benché intesa come responsabilità contrattuale, il giudice amministrativo fa applicazione del termine di prescrizione quinquennale;

–     Responsabilità per il superamento termine per la conclusione del procedimento, rispetto alla quale è onere del privato provare la colpa dell’Amministrazione, non potendosi ritenere presunta; parimenti, rilevano alcune circostanza esimenti, quali l’introduzione di una nuova normativa ovvero una regolamentazione particolarmente complessa;

–     Responsabilità derivante dalla lesione di un interesse legittimo, per la quale la colpa della Pubblica Amministrazione è da ritenersi presunta; trattasi, ad ogni modo, di una presunzione relativa, superabile in caso di scusabilità dell’errore.

Quanto al termine, a mente dell’art. 30 co. 3 c.p.a., l’azione di condanna è proponibile -a pena di decadenza- entro 120 giorni dalla conoscenza del provvedimento ovvero dal giorno in cui il fatto si è verificato, ferma la possibilità di proporre la domanda in via autonoma entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento impugnato.

Detto termine è stato oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale, con la sent. n. 94 del 4 maggio 2017. La previsione di un termine di decadenza relativamente breve è stato considerato dalla Corte come «espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato con l’obiettivo di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, nonché con l’interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni» e, pertanto, non viziato da manifesta irragionevolezza; dal che, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 co. 3 c.p.a. sollevata dal TAR Piemonte con l’ordinanza del 17 dicembre 2015.

Ad ogni modo, il termine non pare applicabile alle ipotesi in cui la responsabilità e, dunque, il danno non è riconducibile all’esercizio di un potere da parte della Pubblica Amministrazione; in questo caso la responsabilità è da ritenersi assoggettata ad un termine di prescrizione quinquennale.

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  1. Le utilità (scarsamente sfruttate) dell’azione di adempimento

Pur a fronte di uno sporadico ricorso all’azione di condanna -eccezion fatta per la domanda risarcitoria derivante dalla lesione di interessi legittimi- le potenzialità offerte dello strumento processuale in esame risultano significative.

Su tutte rileva l’utilità della c.d. azione di adempimento; la domanda consente infatti di evitare la fase rinnovatoria del procedimento amministrativo, che normalmente segue l’annullamento del provvedimento impugnato.

Oltre a consentire il raggiungimento del risultato auspicato con maggiore celerità e sicurezza, l’accoglimento dell’azione consente una “cristallizzazione” dell’obbligo di provvedere in capo alla Pubblica Amministrazione: obbligo immune alle sopravvenienze, anche di carattere normativo, che, al contrario, rileverebbero nella fase rinnovatoria del procedimento (Cons. Stato, Sez. V, 13 giugno 2012, n. 3468).

A titolo esemplificativo, basti osservare la fattispecie in cui l’Amministrazione ha illegittimamente opposto il diniego alla richiesta di permesso di costruire avanzata dal privato; l’eventuale mutamento sopravvenuto della disciplina urbanistica, volto ad escludere l’edificabilità nel luogo, rileverebbe nella fase rinnovatoria del procedimento, impedendo così il rilascio del provvedimento favorevole, a suo tempo legittimo.

Al contrario, la condanna dell’Amministrazione ad un facere specifico, quale il rilascio del provvedimento autorizzativo -possibile solo nei casi di attività amministrativa vincolata- cristallizzerebbe l’obbligo, rendendo irrilevante la sopravvenuta variazione della disciplina urbanistica.

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  1. Esecuzione della sentenza di condanna: profili critici

L’azione di condanna, benché connotata da indubbie utilità, si presta a problematiche sotto il profilo dell’esecuzione della sentenza.

Pur profilando una sorta di autosufficienza della giurisdizione amministrativa, il D.Lgs. 104/2010 delinea una disciplina solo parzialmente efficace: in particolare, il giudizio di ottemperanza (art. 114 c.p.a.) incontra i propri limiti nell’ipotesi in cui la sentenza debba essere eseguita nei confronti del privato.

Il Consiglio di Stato ammette il giudizio di ottemperanza nei confronti di un privato, in via eccezionale, nel solo caso in cui quest’ultimo sia assimilabile ad una Pubblica Amministrazione o, comunque, sottoposto ad obblighi assimilabili a quelli di un’amministrazione (Cons. Stato, Sez. VI, 5 aprile 2006, n. 1776). A ciò si aggiunga l’incompatibilità dell’intervento sostitutivo del commissario ad acta con l’esecuzione di una sentenza di condanna nei confronti di un privato.

Ulteriori criticità discendono dall’art. 115 c.p.a., ove contempla l’esecuzione della sentenza del giudice amministrativo «nelle forme disciplinate dal Libro III del codice di procedura civile»

Detto rinvio se, da un lato, ben si coniuga con le sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro, dall’altro lato, incontra delle criticità rispetto a condanne aventi ad oggetto la restituzione o la consegna di un bene; in particolare, appare dubbia l’apponibilità di una formula esecutiva da parte del giudice amministrativo, necessaria ai fini dell’esecuzione nelle forme previste dal Codice di Procedura Civile.

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  1. L’accesso civico generalizzato: aspetti sostanziali e processuali

Il rito ex art. 116 c.p.a. costituisce un procedimento funzionale ad ottenere la condanna dell’Amministrazione ad un facere che, nel dettaglio, si concretizza con la consegna della documentazione richiesta dal privato.

Alla forma di accesso tradizionalmente prevista (ex artt. 22 e ss. L. 241/1990) si è aggiunto, in primo luogo, l’accesso civico c.d. semplice, per atti e provvedimenti soggetti a pubblicazione tramite sito internet dell’Amministrazione; in secondo luogo, l’accesso civico c.d. generalizzato che, contrariamente all’accesso “tradizionale”, non richiede un interesse concreto e attuale da parte del privato che ne fa richiesta.

Al fine di limitare la pervasività dell’accesso civico generalizzato e, in particolare, arginare il fenomeno delle richieste “massive” in assenza di interesse, i giudici amministrativi hanno fatto ricorso allo strumento dell’abuso del diritto.

Fermo quest’ultimo aspetto patologico, l’accesso civico generalizzato incontra il solo limite degli interessi inderogabili ex art. 5-bis D.Lgs. 33/2016; pertanto, in assenza di opposizione da parte del controinteressato individuato dall’Amministrazione, non paiono sussistere ragioni per le quali può essere negato l’accesso.

A quest’ultimo proposito, l’eventuale diniego della Pubblica Amministrazione non pare potersi limitare ad un generico richiamo, per relationem, alle controdeduzioni fornite dal controinteressato: occorre, quantomeno, che l’Amministrazione le faccia proprie.

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L’istituto dell’accesso generalizzato apre a problematiche anche sotto il profilo processuale. In particolare, non è chiara -ad oggi- la qualificazione del silenziodell’Amministrazione.

Da un lato, si può ipotizzare un parallelismo rispetto all’accesso tradizionale; conseguentemente, l’inerzia della Pubblica Amministrazione sarebbe qualificabile come silenzio-rigetto: dal che, la possibilità di proporre impugnazione entro 30 giorni dal perfezionamento del silenzio.

Dall’altro lato, si può sostenere che il silenzio serbato dall’Amministrazione sia qualificabile come una mera inerzia (in tal senso, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 13 dicembre 2017, n. 5901; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326).

Tale soluzione, condivisa dalle prime pronunce rese dai giudici amministrativi, apre tuttavia a criticità. La qualificazione del silenzio come mera inerzia comporta la necessità di agire, dapprima, avverso il silenzio per mezzo del rito ex art. 117 c.p.a. e, solo successivamente, agire ex art. 116 c.p.a. al fine di ottenere la condanna dell’Amministrazione alla consegna dei documenti.

La duplicazione di procedimenti, tuttavia, si mal coniuga con le esigenze di celerità solitamente connesse all’accesso agli atti. Dal che l’opportunità di consentire al privato la proposizione della domanda di condanna ex art. 116 c.p.a. nel rito avverso il silenzioprestato dall’Amministrazione. Quest’ultima possibilità pare poter arginare il problema esposto senza particolari controindicazioni, in considerazione del fatto che entrambi i riti -silenzio ed accesso- sono oggetto di trattazione in Camera di Consiglio (art. 87 co. 2 c.p.a.).